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  • Immagine del redattoreSilvio Mancinelli

Due chiacchiere con Stefano Solventi


Nonostante il mio blog non sia una grande rivista e quindi grandi numeri in termini di visibilità ha degli interventi importanti. Per questo ringrazio chi si presta a rispondere alle mie domande. In questo caso ringrazio Stefano che ho contattato per farmi dare un giudizio sul mio racconto "La Polveriera" ma qui parliamo di musica e cultura.

1) Ha riscosso molto successo un tuo post su Facebook sul peso delle recensioni. Io e te le facciamo ma ora la domanda te la giro a te: ha ancora senso fare delle recensioni nel 2022, quasi 2023? Le persone le leggono? Si fanno guidare negli acquisti? Il post aveva proprio questo scopo: capire attraverso gli amici della mia bolla social il peso specifico delle recensioni oggi, nell’anno 2022. Il risultato è ovviamente parziale, tra i miei contatti FB predominano gli appassionati di musica cresciuti con le recensioni, che quindi per retaggio culturale tendono a concedere loro molto credito. Tuttavia tra le molte risposte prevale in maniera schiacciante un senso di grande rispetto, persino di necessità per questa modalità giornalistica che qualcuno ha addirittura definito un “genere letterario”. Naturalmente ci sono stati anche commenti disincantati, in molti hanno confessato di non leggerne più o comunque poche, in linea di massima perché sarebbe venuta meno la funzione tradizionale della recensione, vaporizzata dalla possibilità pura e semplice di farsi un’idea in proprio del disco grazie allo streaming (o al download, legale o meno). C’è poi l’aspetto connesso alla proliferazione di recensioni e recensori sulle varie webzine, sui blog, persino sui profili social, un aspetto che tende a svalutare il valore della singola recensione, immersa in quello che potremmo definire un “ecosistema opinante”, dove ognuno sente di poter dire la propria su qualsiasi fenomeno, per il semplice motivo che può farlo e quindi lo fa. A mio modo di vedere però il punto è come e quanto i social abbiano cambiato la natura stessa della recensione, che tende a essere una sorta di “sharing opportunity”, a prescindere da ciò che contiene. Intendo dire che in fase di lancio di un prodotto (un disco, un libro, un film...) al promoter o all’artista interessa principalmente che se ne parli, ovviamente, e questo aspetto prevale sul come se ne parla, sul dove se ne parla, su chi ne parla. È chiaro che se una recensione esce su Repubblica, su Rumore o su Rockol conta di più che se a pubblicarla è il blog tal dei tali con un pugno di follower (tipo il mio, per intendersi). Tuttavia anche la recensione su un blog (relativamente) sfigato ha tutti i requisiti per divenire il contenuto di una condivisione, per partecipare al momento con cui si celebra via social l’esistenza del disco (o del libro, del film eccetera). Quando il promoter o l’artista hanno a disposizione una recensione da condividere, lo fanno: ecco il punto. Ora, è ovvio che il valore della recensione non è strettamente legato al medium su cui viene pubblicata. Spesso anzi quella che esce sul blog “di nicchia” è più acuta e coraggiosa rispetto a quella che campeggia nella homepage del portale da un milione di click. Ma l’aspetto fondamentale è un altro: il contenuto della recensione diventa secondario rispetto al fatto puro e semplice della sua pubblicazione. Il risultato, per farla breve, è il proliferare di recensioni “automatiche”, praticamente dei riassunti delle cartelle stampa, di conseguenza molto simili tra loro, e tutte regolarmente e ben volentieri condivise a mezzo social dai promoter e dagli artisti. Che non possono essere certo biasimati per questo: dal loro punto di vista, è giustissimo così. L’effetto collaterale che più temo di questo scenario è che stia educando la maggioranza dei lettori a considerare la recensione appunto come oggetto di condivisione più che per ciò che contiene e sostiene, alimentando in tal modo questo processo di svuotamento di senso della recensione stessa. Il sospetto è rafforzato dal fatto che spesso nei commenti ai post social che hanno per oggetto recensioni, raramente si fa cenno a quanto sostenuto nel pezzo dal recensore: noto una tendenza decisa a inserire una propria opinione a commento del post, ovvero del disco citato nel post, mentre è difficile che si entri nel merito di quanto argomentato nella recensione (anche quando qualche buon argomento non mancherebbe). In casi del genere viene proprio da pensare che la recensione non conti molto nella dinamica della condivisione social, potrebbe essere stata scritta dal proverbiale scimpanzé che batte i tasti a caso e non farebbe chissà quale differenza. Mi sono chiesto quindi: vale la pena perdere giorni tra ascolti, analisi dei testi, interpretazione e infine scrittura della recensione, se poi in realtà questo benedetto contenuto è indifferente o comunque del tutto secondario? Dalle risposte ottenute sembra che valga ancora la pena, ma i dubbi restano.

2) In questi ultimi anni cominciano a parlare dell'anniversario di dischi rock usciti un po' di anni fa. Per esempio in Italia abbiamo i 25 anni di Tabula Rasa Elettrificata. Hai un po' la sensazione che tra 25 anni parleremo ancora di questo disco e non di successivi? Temo di sì. In ogni caso, se fra 25 anni parleremo di rock, probabilmente parleremo di dischi usciti non troppo oltre il 2000. Purtroppo molto di quello che è uscito negli ultimi due decenni non sembra avere lasciato grandi tracce, malgrado siano usciti dischi molto belli. Mi spingo ad affermare che se oggi uscisse un disco come Blonde On Blonde, si prenderebbe un sacco di belle recensioni, certo, ma nel giro di qualche settimana finirebbe come tutto il resto: dimenticato. Mi auguro di sbagliarmi, non posso escludere che il rock torni a essere un genere cruciale, ma francamente oggi mi sembra poco probabile che accada. Il discorso è analogo a quello che è stato fatto più volte per il jazz, genere che non è affatto morto, però se chiedi a qualunque appassionato di indicare i 50 dischi più importanti della storia del jazz difficilmente ne citerà qualcuno successivo agli anni Settanta, giusto un paio degli Ottanta forse. I motivi sono tanti e intrecciati. Provo a indicarne uno: credo che da qualche tempo e per molto tempo ancora lo streaming plasmerà il nostro modo di concepire l’ascolto, una modalità tutt’altro che neutra, basata su un processo di feedback che ha per obiettivo (più che legittimo) la massimizzazione dei profitti e come effetto (in)desiderato un sempre più codificato conformismo. Da questo quadro il rock in quanto frattura, scarto, sorpresa, è tagliato fuori, anche se continuerà a esistere a livello mainstream come simulacro di se stesso, rivolto a una certa categoria di utenti che del rock ha un’idea ferma più o meno alle baracconate dei Guns N’ Roses. Dimenticavo: saremo sempre meno ascoltatori e sempre più utenti. Una differenza tutt’altro che sottile.

3) Non sono esperto ma ho la sensazione che nei paesi stranieri la cultura venga presa un po' più sul serio. In Italia mi viene da dire che se vuoi fare cultura è più un hobby o un secondo lavoro. Quello che mi preoccupa è quello che pensa lo Stato e il suo atteggiamento (il caso “Verybello” è emblematico). Forse il problema è più globale di quanto non sembri, anche se in effetti il nostro Paese si impegna molto a farci pensare il contrario. A parte la tragicomica disavventura di Verybello, è interessante e a mio avviso emblematico il modo in cui la politica in genere si rivolge a chi vive di arte. Al cantante si chiede il “canta che ti passa”, gli artisti devono essere quelli che “ci fanno tanto divertire”, come se la creatività non avesse senso al di fuori dell’intrattenimento. In effetti è comprensibile, non può essere che così all’interno di una visione dell’esistenza strutturata sulle due fasi simbiotiche del capitale, da una parte il lavoro e dall’altra il tempo libero, l’uno corrispettivo e complemento dell’altro. Siamo sempre lì, al “produci, consuma, crepa” di ferrettiana memoria. Non c’è spazio mentale e culturale per la complessità, la contraddizione, la perturbazione. Il paradosso è che proprio dove il modello capitalista è stato prima e più che altrove messo a sistema, nei paesi anglosassoni appunto,è stata recepita più diffusamente a livello popolare l’importanza dell’artista come agente destabilizzante, quello che si muove trasversalmente alle regole e alla legge, un personaggio misterioso e anche un po’ pericoloso, sul modello del mitologico trickster. Da noi invece l’artista è più un comprimario, un perditempo, proprio come l’arte è considerata al più un accessorio. Le cose che contano davvero sono altre, come appunto il lavoro (perché l’arte non produce, ergo non è lavoro). Sto semplificando di brutto, ma per molti versi è così. Le conseguenze sono evidenti e va sempre peggio. Forse perché questo retaggio non ci ha fornito un sistema di difesa culturale rispetto al meccanismo conformista cui accennavo sopra. Ad esempio, per quanto riguarda la musica, in Italia il pop ritenuto di buona qualità dai media generalisti è sempre più mediocre.

4) Cosa proporresti di nuovo, musicalmente parlando, di italiano e di straniero? Sul concetto stesso di “nuovo” si potrebbe discutere a lungo. È un concetto difficile da definire oggi. Mi limiterei a invitare gli ascoltatori a essere ascoltatori, a non farsi intrappolare dalla smania di seguire il fenomeno di turno, quello che devi conoscere e apprezzare/disprezzare perché è il gettone che devi spendere sui social. Al contrario, invito a praticare con una certa costanza la disconnessione: leggere, inseguire il coniglio bianco della curiosità, dare possibilità. Se proprio vuoi un nome, ti faccio quello di Maria Chiara Argirò, una jazzista italiana che si sta ritagliando un certo spazio nella scena electro londinese e il cui ultimo album Forest City è stato pubblicato dalla losangelina Innovative Leisure. Magari non parliamo di un capolavoro, ma è un disco che prova a esplorare, ad avventurarsi. Ecco, per me la novità dovrebbe essere sempre sinonimo di avventura, almeno un po’.

5) Ultima domanda: le riviste musicali che ancora oggi escono e il ruolo del giornalista musicale, saranno entrambi vivi tra qualche anno? Penso di sì. Lo credo istintivamente. Lo spero. Parto dal presupposto che per quanto il numero di lettori disposti a leggere e comprare riviste possa diminuire, non andrà mai a zero. Forse siamo già arrivati al minimo fisiologico, per cui le testate che sono riuscite a sopravvivere presumibilmente continueranno a farlo, magari aggiustando la proposta, le forme di fidelizzazione, il modello economico. Di conseguenza sono convinto che il giornalista musicale sopravviverà, anzi il suo ruolo sarà - seppure di nicchia - sempre più importante: dovrà produrre mappe e percorsi di ascolto, e dovrà farlo come un algoritmo non è in grado di fare. Il fattore umano sarà l’elemento discriminante. Le recensioni, gli articoli di approfondimento e le interviste dovranno essere in grado di produrre punti di accesso, varchi, deviazioni, cornici. L’alternativa è consegnare il giornalismo musicale a una pubblicistica fatta di comunicati stampa spacciati per articoli. Che poi è quello a cui somigliano le pagine culturali della stampa generalista. Mi auguro che almeno la stampa musicale specializzata sappia mantenere la propria identità: può farlo, lo farà.

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